Un anno dalla Brexit: che cosa è cambiato?

Il 23 giugno di un anno fa i cittadini del Regno Unito si esprimevano sulla scelta di lasciare o meno dell’Unione Europea. Il giorno successivo vennero ufficializzati i dati definitivi, con il 52 per cento delle preferenze verso la Brexit.

Oggi, a un anno di distanza, i negoziati sono ufficialmente cominciati solo da qualche giorno, e non è ancora chiaro quale sarà il tenore che verrà seguito da entrambe le parti. Sarà una soft Brexit o una hard Brexit? E, soprattutto, come sta l’economia britannica dopo la decisione di abbandonare l’Unione Europea?

La situazione politica è più incerta

Cominciamo con uno sguardo alla situazione politica, visto e considerato che lo scenario è cambiato più volte in dodici mesi. Subito dopo i risultati della Brexit il premier David Cameron si dimise, lasciando spazio a Theresa May. In primavera la May ha indetto – in parziale sorpresa – elezioni anticipate: l’obiettivo era quello di rafforzare la propria maggioranza in vista della fase più difficile dei negoziati, ma il progetto è evidentemente naufragato.

Di fatti, come abbiamo ricordato più volte su queste pagine, il Partito Conservatore ha vinto, ma ha perso la maggioranza assoluta grazie a una buona performance dei Laburisti guidati da Jeremy Corbin. Ragionando in termini numerici, per poter disporre della maggioranza occorrono 326 seggi su 650. I Conservatori sono tuttavia passati dall’averne 331 all’averne 318, rendendosi pertanto necessaria l’ipotesi di una coalizione con almeno un’altra forza.

La crescita economica è rallentata

Gli economisti avevano stimato che dopo la vittoria della Brexit la crescita economica del Regno Unito avrebbe subito un rallentamento. Tuttavia, nei prossimi mesi successivi a questa nefasta previsione, l’economia britannica è sembrata reggere il ritmo. Salvo poi ricredersi qualche tempo dopo: secondo i dati Eurostat, infatti, a febbraio il regno Unito è stato superato dalla Germania nel primo posto della classifica dei Paesi G7 per la più rapida crescita economica, mentre a maggio la crescita economica del Paese è stata simile a quella italiana (per intenderci, noi siamo all’ultimo posto).

Nel primo trimestre, la crescita economica britannica è stata solamente dello 0,3% trimestrale a/a. La metà di quanto è cresciuta l’economia dell’Eurozona nel suo complesso (dato aggregato) o di quanto sia cresciuta la Germania, e 0,1 punti percentuali meno di Grecia e Francia.

L’inflazione è quintuplicata

Un dato che non fa dormire sonni troppo sereni ai policy makers della Banca d’Inghilterra è legata alla forte crescita dell’inflazione: dal referendum sulla Brexit ad oggi la sterlina ha perso valore e i prezzi per poter importare i prodotti nel Regno Unito sono di conseguenza aumentati. Nel giugno 2016 l’inflazione era ferma allo 0,5%, mentre a maggio 2017 (11 mesi dopo il referendum) è balzata al 2,9%, per il massimo negli ultimi quattro anni. Il target dell’inflazione ritenuta ottimale dalla BoE è del 2%, lasciando pertanto aperti margini di ragionevole manovra per una correzione monetaria.

Diminuiscono gli immigrati europei

Se l’inflazione aumenta, a diminuire sono invece i cittadini dei Paesi europei che si sono trasferiti nel Regno Unito. Nei mesi precedenti il referendum il loro numero aveva raggiunto il massimo storico, mentre nei mesi successivi il numero è diminuito costantemente, e lo stesso – secondo quanto affermano le stime prodotte dall’Ufficio nazionale di statistica britannico – dovrebbe accadere anche nel corso dei prossimi mesi, soprattutto per quanto concerne gli immigrati dall’Est europa.

Peraltro, dal giugno 2016 ad oggi sono cresciuti di quasi un quarto (+ 24%) i cittadini europei che hanno scelto di abbandonare il Regno Unito.

Il tassello scozzese

Come se il quadro di cui sopra non fosse sufficiente ad alimentare ben più di qualche malumore e ragionamento, vi è un tassello che spesso è mediaticamente sottovalutato ma che potrebbe presto rappresentare un serio elemento di discussione: la Scozia.

Il Paese nel 2014 fece un referendum per l’indipendenza dal Regno Unito: all’epoca i “no” (cioè, coloro che volevano rimanere all’interno del Regno Unito) vinsero con il 55 per cento dei voti. L’anno successivo, nel 2015, lo SNP (il partito indipendentista scozzese, dichiaratamente anti-Brexit) prese 56 seggi su 59, tra quelli attribuiti alla Scozia. Non solo, lo scorso anno gli scozzesi votarono in maggioranza per rimanere nell’Unione Europea.

Il quadro di cui sopra ha spinto lo SNP a chiedere un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia, con l’obiettivo di uscire dal Regno Unito, che era a sua volta uscito dall’Unione Europea, e rientrare in quest’ultima (o, meglio, “rimanere” in quest’ultima, se i tempi lo avessero permesso).

I piani sono stati tuttavia rovinati proprio dalle ultime elezioni, in cui lo SNP è andato peggio del previsto, prendendo 35 seggi, 21 in meno rispetto al passato. Di contro, proprio in Scozia sono andati molto bene i Conservatori, che hanno preso 13 seggi contro l’unico seggio del 2015.

Insomma, la Scozia da pilastro traballante si è trasformato in un gradino su cui May può poggiare (non con troppa serenità) le proprie aspettative di governo. Ma durerà?

Esperto di trading e finanza, mi dedico alla stesura di articoli accurati e informativi, con l'obiettivo di fornire approfondimenti e conoscenze utili per orientarsi nel complesso universo degli investimenti.

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